Antonia Ferri Francesca Polizzi Arianna Egle Ventre
Nino è un cittadino italiano di origine montenegrina, lo incontriamo a casa della sorella dove ora vive. Ci sta aspettando all’ingresso di un grande cancello, noi siamo dalla parte opposta della strada e ci fa segno di attraversare. «Qui è pericoloso, le macchine vanno veloci e siamo su una strada vuota». Ci guida attraverso il cortile dove ci sono varie abitazioni, poi a passo deciso si dirige verso un’entrata piena di vasi di piante e fiori. Il cortile è il regno dei bambini che corrono, urlano e si arrampicano dentro i camion del magazzino delle spedizioni che c’è lì accanto. In casa ci accomodiamo su un divano, davanti c’è il piano cottura. Accanto a noi, ripiegati con cura, ci sono coperte e lenzuola. Durante la notte, il divano diventa un letto per uno degli otto abitanti della casa. Lì vicino, un altro divano dove dorme la mamma di Nino, che ha un tumore da svariati anni. Entrambi vivevano nel campo rom di via della Monachina dal 1996, ma adesso quel luogo non esiste più: «Il primo luglio sono venuti e ci hanno detto: “dovete uscire fuori dalle vostre case”».
Il campo era nato un paio di anni prima che Nino ci si trasferisse e nel 2002 era diventato tollerato – ovvero, le autorità ne conoscevano l’esistenza e la accettavano. Era abitato da 64 persone di provenienze diverse, tra cui tutti i membri della famiglia di Nino. Accanto a lui ha una lettera di sgombero datata 1° luglio 2021.
La sua storia è comune a tantissimi altri cittadini romani di origine rom. A Roma sono cinque i campi chiusi tra il 2019 e il 2021: Camping River, Foro Italico, Area F di Castel Romano, Monachina e Barbuta.
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La geolocalizzazione dei campi all’interno della Città metropolitana di Roma
Il 31 maggio 2017 l’ex sindaca di Roma Virginia Raggi annunciava il progetto per “superare i campi rom”. Il lavoro della giunta era coerente con gli obiettivi della Strategia nazionale per l’inclusione della popolazione rom, sinti e caminanti. Il primo passo è stato la stesura del Piano di inclusione di Rom Sinti e Caminanti, approvato il 26 maggio dello stesso anno. L’idea alla base era di responsabilizzare chi viveva nel campo, prendendo le distanze dalle politiche assistenzialiste delle giunte precedenti che, secondo gli autori del piano, avevano reso i rom ancor più marginalizzati.
Questa idea di responsabilità si è espressa con un documento, che è stato presentato alle famiglie residenti nei campi che lo avrebbero dovuto firmare e sottoscrivere, e che stabiliva gli impegni dei firmatari e dell’amministrazione. Questo “Patto di Responsabilità Solidale” richiedeva infatti da un lato ai firmatari di impegnarsi in tirocini per l’inserimento al lavoro e nella ricerca di una casa, dall’altra prometteva da parte del Comune un sostegno per l’affitto, della durata limitata di due anni, per trovare un lavoro stabile che gli garantisse l’indipendenza.
I pilastri teorici del patto erano: casa, lavoro, salute e scuola. Ma a giudicare dalle azioni effettivamente intraprese dall’amministrazione della città il principale obiettivo è stato quello di far fuoriuscire le persone dai campi per chiuderli, senza una concreta azione che ne favorisse l’inclusione nel tessuto urbano.
Il Patto che veniva sottoposto agli abitanti dei campi nella fase preliminare agli sgomberi (pag. 37-49)
«Sono arrivate le lettere. E in nove giorni dovevamo trovare le case. Nove giorni. Era un incubo quello che abbiamo vissuto». Arianna è una donna di mezz’età e madre single, da quando è uscita dal campo fa pulizie e altri lavoretti saltuari e in nero: viveva in via della Monachina come Nino. Nei mesi precedenti, così come gli altri abitanti del campo, le era stato chiesto di firmare il Patto.
«Il Piano di superamento prevedeva che le famiglie si affidassero all’associazione che aveva vinto il bando del Comune perché li aiutasse con i problemi di lavoro, di documenti, di casa», spiega Marco Brazzoduro, presidente dell’associazione Cittadinanza e minoranze. «Una serie di famiglie per diffidenza ha deciso di non firmare. Altre invece, non hanno firmato perché erano senza documenti e senza documenti non entravi sotto l’ombrello della protezione».
Ad oggi, così come durante gli anni degli sgomberi, c’è quindi chi ha scelto di non firmare, ma anche chi non ha potuto farlo ed, escluso dal piano, è stato lasciato consapevolmente in mezzo alla strada. In tutto il Piano ha coinvolto 1.029 persone fuoriuscite dai campi. Il primo a essere sgomberato è stato Camping River nel 2018. Il campo della Monachina è stato l’ultimo sgombero della giunta Raggi.
Le politiche di sgombero dell’amministrazione della Capitale hanno comportato un impiego di denaro proveniente in parte da fondi europei e in parte, anche se molto minore, dalle casse del Comune. Le fonti ufficiali delle istituzioni parlano di un finanziamento totale di circa tre milioni e mezzo per il Piano, di cui più di tre milioni provenivano dal Programma operativo nazionale (Pon) “Città metropolitane”, adottato dalla Commissione europea.
Era il 26 luglio 2018 quando Camping River, uno dei campi tollerati della Capitale, è stato sgomberato. L’ordinanza dell’ex Sindaca fissava al 31 dicembre 2018 il conseguimento degli obiettivi del Piano. A pochi mesi dalla scadenza ci si ritrova a dover dare dei segnali di attività, così, approfittando della situazione particolare di Camping River, vengono introdotte misure di sostegno all’inclusione lavorativa, per l’iscrizione anagrafica, di regolarizzazione documentale oppure viene proposto il rientro assistito volontario nel proprio paese d’origine.
Camping River costituisce un unicum nel panorama dei campi rom romani perché è il solo campo a sorgere su un suolo privato e la cui gestione dei servizi è affidata a una cooperativa. Il 30 giugno la giunta decide di sospendere i servizi al campo: gli abitanti si ritrovano senza elettricità, acqua potabile e fogne. La situazione al campo viene definita emergenza igienico-sanitaria. Un chiaro pretesto per mandar via le persone. Arriva poi un’ordinanza della Raggi del 13 luglio che ordina l’allontanamento dall’area dove sorge Camping River di tutte le persone «entro il termine perentorio di 48 ore». Ma arriva un punto di svolta in questa vicenda: su sollecito degli abitanti del campo, aiutati da associazioni e avvocati, interviene la Corte europea dei diritti dell’uomo.
La decisione della Cedu è di sospendere lo sgombero dell’insediamento rom fino a venerdì 27 luglio; sospensione che aveva l’obiettivo di monitorare la situazione del campo e garantire che non venissero violati i diritti umani fondamentali delle circa 300 persone che risiedevano nell’insediamento dal 2005.
Nonostante lo stop di Strasburgo, il Comune di Roma ha iniziato le operazioni di sgombero forzato di Camping River il giorno prima del pronunciamento della Corte. Delle persone che vivevano a Camping River, soltanto una minoranza ha avuto accesso a delle soluzioni abitative. Camping River costituisce il progetto pilota che poi darà avvio agli sgomberi degli insediamenti di La Barbuta e Monachina.
Quel che è certo è che, insieme agli assistenti parte dell’Ufficio speciale rom, sinti e caminanti di Roma capitale, c’erano altri enti di mediazione, vincitori dei bandi indetti dal Comune. Ogni campo presentava una situazione diversa da quella dell’altro, ma i due principali enti occupati nell’accompagnamento delle persone all’inclusione erano la Croce rossa e Arci solidarietà onlus. Gli enti vincitori dei bandi si occupavano di garantire la realizzazione del Piano, introducendo le persone al lavoro regolare, occupandosi dell’aiuto nella compilazione dei fogli per la regolarizzazione dei documenti, assicurando le soluzioni abitative e stabilendo quindi il supporto economico alle famiglie, fino a un massimo di 10.000 euro per nucleo. I contributi economici venivano (e vengono) erogati per due anni.
I fondi programmati dal progetto Pon Metro, quelli ammessi a finanziamento (comprovati da fatture) e quelli erogati [in EUR]
Al termine di questi due anni, con o senza lavoro regolare – necessario per poter firmare un contratto d’affitto -, privi di qualsivoglia monitoraggio a posteriori in merito all’integrazione nel territorio, ognuno è stato (e verrà) lasciato a se stesso.
Inoltre, nella bozza del Piano, i criteri per l’assegnazione del supporto economico risultano fortemente meritocratici. Ciò significa che i componenti dei campi con figli scolarizzati e con un lavoro, ottenevano di più. Una dinamica che porta, in modo inevitabile, a escludere chi già versa in condizioni di maggiore disagio.
Tra chi non ha potuto firmare ci sono stati interi nuclei familiari che non possedevano documenti regolari, come il permesso di soggiorno o la cittadinanza italiana. O chi, come Arianna, che poi ha potuto firmare, stava facendo le pratiche per l’apolidia – condizione riconosciuta per cui nessuno Stato considera quella persona propria cittadina.
I criteri di accesso alle misure di sostegno venivano stabiliti valutando requisiti a vantaggio di coloro che avevano già intrapreso percorsi di integrazione
Quando abbiamo chiesto a Monica Rossi, ideatrice del Piano per il Comune, di chi fosse la responsabilità per le persone irregolari lasciate in strada, non ha saputo rispondere e ha insistito sul fatto che la responsabilità per certi versi potesse ricadere sulle persone stesse: «Dovrebbero prendersi la responsabilità della loro vita e dire: “perché sto qui dopo tutte le sanatorie e non mi sono mai regolarizzato?”, per cui mi dispiace, il Piano parte da un’assunzione di responsabilità, questi sono cittadini, non sono dei bambini».
Nonostante la severità delle sue parole, la stessa Monica Rossi ha però ammesso che, quando i rom irregolari vanno al comune a portare le documentazioni per la regolarizzazione, a seconda dell’impiegato che incontrano, a volte riescono a far partire la loro pratica, altre volte si sentono rispondere che non c’è possibilità di procedere.
Nino, come altri, aveva in un primo momento deciso di non firmare ma, quando poi ha cambiato idea spinto dal bisogno di non restare per strada, era troppo tardi a causa della scadenza già fissata. «Ti fanno firmare un Patto per far cosa? Non c’è scelta, perché comunque verrai cacciato dalla tua abitazione attuale», commenta l’avvocato Salvatore Fachile, sottolineando quelli che secondo lui potrebbero essere i caratteri illeciti del Patto, e continua: «In mancanza di alternativa si tratta di un patto che è un incontro di due volontà libere, o si tratta di un’imposizione?».
Lo stesso avvocato evidenzia che anche i nuclei familiari assegnatari di nuove soluzioni abitative si sono poi trovati di fronte a problemi sia pratici sia di integrazione: fenomeni di prevaricazione, case popolari già occupate, atti discriminatori e intimidazioni. Le soluzioni proposte dal Piano erano: cohousing – una soluzione instabile dove più famiglie sono costrette a convivere -, edilizia residenziale pubblica e aiuto all’affitto indipendente – che dà diritto a un sostegno economico per due anni.
I numeri esatti in merito alle assegnazioni delle abitazioni vengono riportati dalla società Digivis, ente terzo incaricato dal comune di valutare i risultati del Piano.
La discriminazione specifica nei confronti della popolazione rom si chiama antiziganismo. È un sentimento pervasivo della società italiana, che si traduce anche in episodi discriminatori nei quartieri. In più le persone, per ammissione di Monica Rossi, sono state volutamente sparpagliate per la città, separando parenti che prima vivevano nello stesso campo. Questo, secondo l’ideatrice del Piano, per favorire l’inclusione e «non affliggere i cittadini romani con una presenza eccessiva (di rom, ndr)». Come se la vicinanza ai cittadini rom sia una “maledizione” da cui dover difendere i “veri romani”. Nonostante sia stata data una casa a 295 famiglie, è quindi rimasta intatta la struttura discriminatoria sottostante.
La dichiarata volontà di “superamento dei campi” poi, non è sostenuta da nessuna reale politica a lungo termine. C’è stata infatti una pressoché totale assenza di monitoraggio nei mesi successivi all’assegnazione delle abitazioni, per cui si pone ora il problema di capire dove andranno le famiglie allo scadere dei due anni. Come potranno mantenere l’affitto senza lavoro e con serie difficoltà nel trovarlo?
«Quando una famiglia rom del campo riceve una casa popolare cerca di non far sapere che arriva dal campo perché sa che c’è questo pregiudizio». Questo un estratto delle parole di Carlo Stasolla presidente dell’associazione 21 luglio. Rinunciare alla propria identità per farsi accettare, è questo il paradosso dell’inclusione. Le parole di Stasolla possono essere meglio contestualizzate facendo riferimento a una serie di episodi razzisti avvenuti nei confronti di persone rom. Sono due i casi di violenza che si sono imposti nelle cronache romane per la matrice xenofoba e sessista.
È l’aprile 2019 quando 70 famiglie, di cui 30 bambini, vengono sgomberate dai campi nell’ambito delle politiche di attuazione del Piano per essere assegnate al centro di via Codirossoni, a Torre Maura nella zona sud-est della città. Un gruppo di manifestanti di CasaPound e Forza Nuova per giorni ha protestato contro il trasferimento dei rom nel centro di accoglienza. Alle prime proteste e rivolte da parte degli abitanti del quartiere che sostenevano di voler «cacciare gli zingari», l’amministrazione risponde con l’annuncio di una ricollocazione delle persone in altre soluzioni abitative. L’aspetto peculiare di questa violenza è la strategia messa in atto dai gruppi neofascisti: impedire l’approvvigionamento di cibo in favore delle persone che avrebbero dovuto essere ospitate nella struttura.
Il secondo episodio, poche settimane dopo, coinvolge un’altra zona di Roma, Casal Bruciato. Una donna con la sua famiglia, legittima assegnataria di una casa popolare, al momento del suo trasferimento nell’appartamento, viene aggredita da un gruppo di militanti di CasaPound, che le hanno gridato: «Troia, puttana, fai schifo». Si è arrivati alle minacce di stupro.
Andando oltre le strumentalizzazioni politiche da parte dei gruppi dell’estrema destra romana, che sono molto frequenti e ricordano casi simili come le proteste contro il centro per richiedenti asilo minorenni a Tor Sapienza nel 2015, emerge che a Roma la presenza delle famiglie rom nei quartieri continua a generare tensione e non porta all’inclusione e all’inserimento nel tessuto sociale perché si portano avanti politiche di ghettizzazione e di esclusione dei rom.
Molti, come Nino, dopo essere stati sgomberati dal campo, hanno perso il lavoro. Venuta a sapere della sua provenienza dal campo, la sua datrice di lavoro lo ha licenziato. Per far fronte a situazioni simili il Piano prevedeva in teoria un accompagnamento al lavoro mediante tirocini e supporto economico a piccole imprese. Ma molte famiglie continuano ancora oggi a lavorare nei mercatini irregolari dove vendono ciò che recuperano dalla spazzatura e materiali rubati.
Arianna, che ha firmato il patto, racconta di aver svolto un tirocinio che non le ha in alcun modo assicurato la possibilità di trovare un lavoro regolare. Arianna lavora da un parrucchiere, due ore la domenica, mentre in settimana va a fare la spesa e altre commissioni per una persona anziana. Ora è in attesa e forse comincerà ad andare a fare le pulizie in un’altra casa il sabato e la domenica. Una condizione lavorativa insufficiente per fornire le garanzie pretese dal mercato immobiliare. Messa di fronte all’inadeguatezza del lavoro svolto dalle istituzioni, la delegata della Sindaca, Monica Rossi risponde così: «Domani mattina alle cinque, prendete la macchina e andate in via Palmiro Togliatti: troverete una fila di moldavi con un cartello al collo con scritto “30, 40 euro”, se uno vuole lavorare al nero qui a Roma, lavora subito», senza tener conto del fatto che per poter pagare un affitto regolare, un lavoro in nero non basta.
Un altro dei pilastri del Piano era la scolarizzazione, aspetto questo che più degli altri ha risentito dell’assenza di monitoraggio. Lo spostamento delle famiglie in luoghi distanti da dove abitavano prima ha portato il Comune a mobilitarsi per introdurre i bambini in nuove scuole, ma non sempre le famiglie rom invogliano i figli a frequentare. L’insieme di questi fattori si unisce a un contesto già di estrema gravità per la scolarizzazione dei bambini rom. Inoltre, la stessa Monica Rossi aggiunge: «Io non mi sono proprio interessata della scolarizzazione, ritenendo che sia un obbligo da parte dei genitori di interessarsi alla scolarizzazione dei figli».
Seduto alla sua scrivania, Mauro Di Giacomo riassume le modalità con cui ha raccolto i dati e monitorato gli andamenti del Piano. È presidente della società Digivis, l’ente imparziale incaricato di redigere un report finale in grado di dare un quadro complessivo dei risultati del Piano. Lo stesso report necessario a dimostrare che i fondi europei erano stati spesi per le finalità a cui erano destinati. Ma è lo stesso Di Giacomo ad ammettere che il monitoraggio, e quindi il report conclusivo, sono parziali. «Dopo gli sgomberi in realtà non sappiamo più niente. Perché gli sgomberi sono avvenuti tra il 2020 e il 2021. Nel 2021, poi, c’è stato il passaggio di giunta, per cui già a settembre… adesso sarebbe in realtà il momento in cui ricominciare il monitoraggio di tutti i fenomeni», spiega Mauro Di Giacomo.
Nel 2021 è finito qualsiasi lavoro di controllo. Da quel momento non si hanno più aggiornamenti sull’andamento del progetto. Ad oggi la nuova giunta Gualtieri si posiziona sulla stessa linea della giunta Raggi, proseguendo nell’intento di responsabilizzare le persone chiudendo volutamente gli occhi sul livello di antiziganismo strutturale che marginalizza i rom e che porta ancora una volta Monica Rossi a dichiarare con convinzione: «Io credo di aver inaugurato una fase di assunzione di responsabilità da parte dei rom».
Invece tra chi non ha voluto firmare, chi non ha potuto firmare, chi, come una mamma sola e senza più i parenti intorno che badano ai bambini piccoli come nel campo, non può più lavorare e dovrà presto lasciare la sua casa e chi, infine, non trovandosi d’accordo o subendo la prepotenza di un’altra famiglia, ha dovuto abbandonare la soluzione di cohousing. Sono in molti che non hanno saputo e non sanno più dove andare. Così dallo sgombero dei grandi campi sono semplicemente nati nuovi insediamenti, più piccoli, campi informali e occupazioni in giro per la città.
Le soluzioni abitative assegnate o trovate autonomamente dai nuclei famigliari sgomberati dai campi
Una degli abitanti di questi nuovi piccoli insediamenti è Miriana che vive con il suo cane Bella in una baracca che si è costruita da sola tra il vecchio campo sgomberato di Foro Italico e le rive del Tevere. Miriana trasporta una damigiana d’acqua e spinge un carrello pieno di bigiotteria, ferro e vestiti. «Tu pensi che così mi piace a me? No, no credimi. Sono zingara, ma voglio essere pulita, voglio avere l’acqua». Miriana ha 56 anni, è serba, ma vive fin da giovanissima in Italia. Non ha mai firmato il patto perché non sapeva dove sarebbe finita né che cosa avrebbe fatto allo scadere dei due anni. Ha la sindrome del tunnel carpale e le mani le fanno male, dice che si dovrebbe operare, ma non può stare dei giorni senza andare al mercatino e procurarsi i pochi soldi che le servono per vivere.
Nino che ci accompagna al suo vecchio campo e ci mostra dov’era la sua baracca, è spaventato: «Due mesi, tre mesi, un anno. È finito il progetto. Il progetto finisce e finiamo anche noi in mezzo alla strada».
Nino dice che la gente tornerà nel campo. Miriana si sta già attrezzando per farlo.
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